Articolo di Giulia Maria Picchi pubblicato su TeamSystem
Negli ultimi quindici giorni mi sono trovata due volte a intervenire in convegni in cui ho parlato di integrazione tra studi. Le ragioni che da tempo ormai spingono verso riflessioni di questo genere sono legate a fattori diversi che comprendono cambiamenti di contesto, ragioni di opportunità economica, possibilità o necessità di competere con realtà che prima non esistevano o non erogavano quei servizi, voglia di cambiare e di misurarsi con sfide diverse.
Al di là della scelta della formula societaria più adeguata -che lascio volentieri agli esperti- insisto sul fatto che molte avventure partono tra mille entusiasmi salvo arenarsi durante il tragitto o, nel peggiore dei casi, portare a un esito inizialmente positivo ma che si trasforma presto in una sorta di agonia premorte più o meno lunga e sofferta.
Durante i miei interventi ho sottolineato che è fondamentale -prima ancora di pianificare accuratamente tutte le fasi che portano all’integrazione, dalla ricerca del partner più adatto alle attività operative da svolgere una volta trovato l’accordo- avere molto chiaro chi si è e soprattutto perché si sta procedendo ad una integrazione.
Si torna al discorso del purpose -di cui già ho parlato diverse volte- e cioè alla ragione ultima per cui lo studio esiste e quindi alla chiara comprensione di chi si è per sapere scegliere senza troppe esitazioni che cosa si vuole fare e con chi.
Ma si torna anche alla necessità di avere una propria strategia di sviluppo di cui un’integrazione è solo una delle scelte possibili, non la via obbligata.
Pandemia e modelli sostenibili di business
Fatta questa premessa che ritengo comunque ineludibile anche a livello personale e non solo professionale, un’altra considerazione emersa, in particolare, durante l’ultimo convegno riguarda l’impatto dei cambiamenti sulle modalità di lavoro imposti -o quanto meno accelerati e sdoganati su larga scala- dalla pandemia.
La possibilità di lavorare da remoto e prima ancora le riflessioni personali sul tipo di esistenza che si vuole condurre, hanno rimesso in discussione le priorità di molti e la rigidità -lasciatemelo dire- di alcune realtà nell’imporre un ritorno ai ritmi in presenza pre-covid ha generato un’insoddisfazione tale da dare origine a un’ondata di licenziamenti etichettata come “the great resignation” -anche di questo ho già parlato.
A questo repentino cambiamento di scenario si aggiunge la crescente difficoltà di reperire professionisti, particolarmente tra i più giovani, circostanza che sta limitando l’espansione di diverse realtà che pure ne avrebbero tutte le possibilità, per tipologia di clienti e di incarichi.
Tutte ragioni quindi che spingono a guardare alle integrazioni come una possibile soluzione, sia per fare un salto tecnologico e riuscire ad abbracciare fino in fondo la logica del lavoro da remoto, sia per poter contare su una base di professionisti più ampia -eventualmente anche con competenze e percorso di studi diversi.
Un esempio di modello di business sostenibile
Non ho intenzionalmente usato il termine “fusione” perché le formule che regolano una stabile collaborazione, chiamiamola così, sono le più diverse e forse, proprio a seguito dei cambiamenti di contesto descritti sopra, questo è proprio il momento per sperimentarne di nuove, non ultimo guardando a quelle che sono state proposte negli anni passati e che, in alcuni casi, forse sono risultate troppo in anticipo sui tempi per essere emulate.
Una di queste che mi ha particolarmente colpito è Obelisk support, una realtà inglese fondata nel 2010 da Dana Denis-Smith, una professionista eclettica che dopo un’esperienza in un grande studio internazionale ha deciso di fondare uno “studio” che fornisse servizi legali flessibili a primarie società e studi professionali attraverso avvocati che non volevano più una carriera legale tradizionale.
Sul sito di Obelisk si legge in home page “Obelisk Support è fondata e continua ad onorare il principio de “le persone prima di tutto”. Creiamo per i professionisti opportunità di crescita offrendo servizi legali flessibili alimentati da una comunità di professionisti legali che vogliono lavorare in modo diverso. Ci distinguiamo per il nostro impegno a mettere le persone al primo posto e a concentrarci su ciò di cui i nostri clienti e consulenti hanno davvero bisogno per avere successo – ed è per questo che il 90% dei nostri clienti ritorna sempre da noi”.
La comunità di Obelisk support conta oggi più di 1000 freelance che, sempre come si legge in home page, condividono l’idea che nessuno debba essere chiamato a scegliere tra vita e lavoro e sono mossi dalla passione di rendere la professione legale più inclusiva e flessibile.
Leggendo i diversi contributi e non ultimo il report CSR ben si capisce la logica su cui questa realtà si fonda e cioè l’idea che persone di talento non debbano essere costantemente penalizzate solo perché vogliono anche avere una vita personale piena e prendersi cura di se stesse e dei loro affetti o perché, quali che siano le ragioni, hanno avuto un break che le ha allontanate dal mondo del lavoro per un certo periodo. L’ambizione è quella di segnare una svolta nel modo in cui l’intero mondo legale opera come dicono loro “un avvocato alla volta”.
Non credo che ci sia la necessità di fare un collegamento con la sostenibilità, perché mi pare evidente quanto forte sia la corrispondenza di questo modello di business con il tema.
Come ho già detto più volte, credo che ragionare in termini di sostenibilità possa essere una via eccellente per mettere a fuoco la propria identità, chiarire i valori in cui si crede e che si vogliono onorare ogni giorno, anche come professionisti.
E credo anche che questo momento così complesso e a volte forse anche scoraggiante sia invece da guardare come una discontinuità che può portare all’affermazione di modelli di business e realtà professionali diverse nel modo di operare ma non certo meno capaci di offrire servizi eccellenti ai propri clienti.
Gli esempi non credo che manchino. Spero altrettanto per il coraggio che serve per seguirli.