Articolo di Giulia Maria Picchi pubblicato su TeamSystem
Con una certa regolarità scandaglio la rete alla ricerca di novità -particolarmente da oltre oceano- riguardanti il tema della sostenibilità per gli studi professionali. Nessuno se ne abbia a male ma d’altra parte è successo lo stesso circa 20 anni fa con il marketing e la comunicazione: nel giro di un tempo più o meno lungo, le tendenze che si affermavano particolarmente negli Stati Uniti e che nel nostro Paese venivano guardate a dir poco con sospetto, trovavano poi un po’ alla volta terreno fertile anche in Italia.
È così che sono inciampata nell’articolo “How the climate crisis is changing the legal profession” pubblicato dall’International Bar Association (IBA) lo scorso 28 settembre e dal quale si evincono diversi spunti di riflessione a mio avviso interessanti.
Il primo è che, a fronte delle numerose e declamate promesse fatte in particolare da compagnie petrolifere e istituzioni finanziarie in merito alle modalità con cui stanno gestendo la loro transizione verso nuovi modelli di business, il settore legale non è rimasto a guardare ma ha, seppure molto più silenziosamente, fatto una serie di passi avanti.
Sono, infatti, emerse nuove alleanze in diverse parti del mondo con l’espresso intento di guidare il cambiamento nei propri luoghi di lavoro e nella professione in generale: l’Australian Legal Sector Alliance, Lawyers for Climate Justice in Canada, Lawyers for Climate Action in Nuova Zelanda, Chancery Lane Project e Lawyers for Net Zero nel Regno Unito per citarne alcune. Tutte queste iniziative intendono essere promotrici del cambiamento all’interno degli studi e nella professione in generale.
L’IBA stessa nel 2020 aveva rilasciato una dichiarazione sulla crisi climatica, prendendo posizione con il documento “Climate Crisis Statement” che definiva le azioni che gli avvocati potrebbero intraprendere per combattere l’emergenza tra cui: una maggiore interazione con il legislatore, un’attività di consulenza ai clienti sui rischi climatici e un impegno diretto nell’ambito delle facoltà di giurisprudenza per far conoscere gli aspetti legali del climate change e il loro impatto sui diritti umani.
Pur essendo un documento aspirazionale è indubbiamente un segno della necessità di considerare il cambiamento climatico come parte della pratica professionale quotidiana nonché un invito a impegnarsi direttamente nei processi decisionali riguardanti le azioni da intraprendere sul clima.
Ma non solo. Suggerisce anche agli avvocati di allearsi con professionisti di altre discipline per promuovere iniziative e agire in modo proattivo, consapevoli del fatto che è necessario un approccio appunto multidisciplinare stanti le interdipendenze che la crisi climatica determina.
Un’interessante opportunità questa per gli studi che, guardando al futuro, hanno voglia di ripensare integralmente il proprio assetto societario accogliendo professionisti con competenze diverse per proporre un’offerta di servizi che davvero si possa definire integrata.
Altro spunto proposto dall’articolo che ritengo particolarmente interessante è quello di riconsiderare il ruolo di avvocati d’impresa (indipendentemente dalle proprie convinzioni personali in merito al cambiamento climatico) e divenire veri e propri “strategic advisor”, affiancando le imprese che stanno affrontando la transizione e aiutandole a comprendere sia i rischi regolatori che derivano dal detenere particolari asset, sia gli impatti legali determinati dalle politiche sul clima, non ultimo considerando anche i rapporti che l’impresa deve mantenere con i propri finanziatori e azionisti piuttosto che limitandosi a dire “queste sono le previsioni di legge”.
Ultima considerazione. Così come molte sono le imprese che si sono messe in cammino, altrettanti saranno gli studi che devono approcciare il tema della sostenibilità, soprattutto per essere considerati degli interlocutori credibili quando andranno a sollecitare l’attenzione dei loro clienti su tematiche che interessano e coinvolgono tutti su scala globale.
Mentre le grandi law firm già da anni se ne stanno attivamente occupando, le realtà di minori dimensioni si stanno (forse) interrogando solo ora su come procedere. Ed è proprio quando si comincia a parlare delle iniziative da introdurre all’interno dello studio che risulta evidente il gap generazionale: mentre i professionisti più giovani non hanno bisogno di particolari presentazioni, i partner invece manifestano ancora diverse resistenze e il primo sforzo da fare è proprio rivolto a guadagnare il loro consenso.
Una volta avuto “il permesso” di occuparsene e con specifico riferimento alla riduzione di emissioni di carbonio, si può ragionare sulle misure da adottare: non essendo uno studio una “fabbrica di prodotto”, le possibilità più evidenti riguardano la riduzione dei viaggi, il consolidamento (se non l’aumento) del lavoro da remoto e ogni altra attività diretta a compensare le emissioni prodotte -dal piantare alberi fino all’acquisto di crediti di carbonio, e qui sì, la creatività dei più giovani è benvenuta!
Posizionarsi come uno studio attento alla propria impronta ecologica ha ancora una volta un doppio effetto positivo: corrispondere ai criteri di selezione di una clientela sempre più attenta e/o che deve a sua volta soddisfare criteri di sostenibilità e attrarre (e non perdere anche…) i millennials più brillanti, oggi pronti a cambiare studio se non trovano una coincidenza di valori anche su questo fronte.